Qui il servizio realizzato per la puntata di Punto di Rottura del 14 giugno 2024.
A partire dagli anni ’70, nei bar, nei negozi, nel dibattito pubblico, iniziò ad affacciarsi un tema che più avanti diventerà quasi all’ordine del giorno: il greenwashing. Una fusione di due parole inglesi: “green”, verde, e “washing”, lavare, e quindi letteralmente significherebbe “inverdire”. Ma dietro la parola “washing”, che nel parlato rimanda anche al concetto di “imbiancare” e “coprire”, risiede la vera natura del termine.
È un ambientalismo di facciata, un ecologismo per modo di dire: è una strategia comunicativa adottata da imprese, istituzioni politiche, organizzazioni che in realtà non ha nulla a che vedere con l’ecologia. Si tende a costruire un’immagine e, quindi, una facciata di sé per cercare di ingannare l’altro sotto il profilo dell’impatto ambientale, nascondendo che ciò che si fa ha degli effetti – in realtà negativi – per l’ambiente. E per raggiungere questo scopo, uno dei veicoli più utilizzati è la pubblicità e la comunicazione aziendale.
C’è anche, però, un’altra versione – un po’ più leggera e meno consapevole – che porta a considerare il greenwashing non direttamente legato ad intenti disonesti, ma più che altro all’ignoranza e alla non curanza delle aziende. Ma se la legge non ammette ignoranza, perché dovrebbe ammetterla il consumatore? Perché di fatto è lui che usufruisce dei prodotti che vengono etichettati come green, ma la fiducia a quanto pare non può bastare a far percepire un prodotto in maniera più favorevole solo perché “verde”.