Intervistato a Inews, Tiago Pinto è tornare a parlare della Roma: “Quando ho lasciato la Roma ci ho pensato molto e sentivo che era il momento giusto, la fine di un ciclo. Ma quando ho preso la mia decisione, tutti quelli a me vicini hanno detto: Conoscendoti, dubito che sarai in pace dopo due settimane. Probabilmente avevano ragione… Il mio percorso nel calcio è molto diverso da quello della maggior parte delle persone. Ho studiato economia e pedagogia all’università e poi ho gestito questi cinque club, tutti con rose e culture diverse. Così ho imparato tanto”.
Riguardo il lavoro svolto alla Roma.
“È stata una grande sfida, ma mi piace correre dei rischi”.
Sull’interesse del Newcastle.
“Se un grande club come il Newcastle chiede di parlare con te, ovviamente sei interessato. Conosco molto bene la storia del club perché Sir Bobby Robson era una grande personalità in Portogallo e lo associavamo al Newcastle. Ho seguito il club per quella passione. Il lavoro svolto dalla nuova proprietà è stato davvero impressionante: con una strategia intelligente sono venuti da una lotta per la retrocessione in Champions League, quindi c’è un enorme potenziale al Newcastle. Non so se l’interesse sia vero o no, ma chi direbbe no a un progetto del genere?”.
Sul rapporto con Mourinho.
“Non fraintendetemi, quando lavori con un uomo con un profilo così importante, è impegnativo. Ed è esigente perché ha ottenuto così tanto e ha standard elevati. Non dimentichiamo che sono portoghese e ho iniziato a lavorare con lui quando avevo 36 anni, per un giovane direttore sportivo è impossibile lavorare normalmente con Mourinho. Ho imparato molto da lui. È uno degli allenatori più importanti della storia del calcio. Il calcio è come ogni cosa, ha dei cicli. A volte sei d’accordo, a volte non sei d’accordo, ma nessuno può minimizzare il grande impatto che ha avuto alla Roma. Ciò che ti colpisce davvero ogni giorno è ciò che significa per le persone. Non importa se sei a Londra, Reykjavik, Dubai o dovunque, ciò che Jose significa per le persone è qualcosa di straordinario. E ci sono allenatori che hanno vinto tanto o anche più di lui, ma è difficile trovare qualcuno che tocchi il cuore della gente come lui. Ecco un piccolo esempio. Un giorno giocavamo a Sofia in Bulgaria nella Conference League, la partita era a novembre e il tempo era terribile. Nevicava, faceva molto, molto freddo. Vincevamo 3-0 ma alla fine abbiamo vinto 3-2, è stata una partita molto brutta. Abbiamo vinto ma eravamo di cattivo umore. Tutti vogliono farsi una doccia, prendere un autobus e andare all’aeroporto. Nevicava, era mezzanotte e quando è uscito dallo stadio e io lo guardavo aveva fatto 50 metri fino al punto dove c’erano 100 o 200 persone che gridavano per lui. È andato lì, ha fatto foto, ha fatto autografi. Ero sull’autobus a guardarlo e ho pensato: questo uomo ha vinto 25 titoli, è incazzato per la partite, tutti sono congelati e si sta prendendo 15 minuti per fare questa cosa. Sembra un piccolo dettaglio, ma alla fine lavoriamo per le persone. La cosa più speciale di Mourinho è il modo in cui lavora con le persone, la reazione che provoca in loro”.
Sul calciomercato.
“Bisogna essere chiari con le persone. Il denaro e i contratti contano moltissimo, ma cerco di gestirne il lato emotivo perché ci sono molte emozioni nel business del calcio. A volte anche solo il numero di maglia può fare la differenza. Quando abbiamo ingaggiato Tammy Abraham e lui era vicino a firmare per altri club, ci siamo assicurati che la prima volta che lo abbiamo incontrato avessimo una maglietta con il suo nome e il numero che avrebbe indossato con noi. Forse questo significava qualcosa per lui. La mia personalità, cerco di essere metodico. Non sono il tipo che chiama tutti dicendo potrei essere interessato al tuo giocatore e lavora su molti altri tavoli. Un agente mi ha detto: sei l’unico direttore sportivo che conosco che mi dice subito che non ti interessa!”.
Sull’importanza del Fair Play Finanziario.
“Per me il FFP non è un nemico. È qualcosa che influenza il tuo lavoro, ma non è un ostacolo al tuo lavoro. Dobbiamo guardarlo a livello globale. Per proteggere il business globale del calcio servono regole, serve sostenibilità. Credo in questi principi perché credo che dobbiamo spendere meno di quanto generiamo. Per me come direttore sportivo è un buon punto di partenza. Non sono contrario. Penso che come strumento possa aiutare il calcio a essere più sostenibile in futuro. Queste regole ti spingono a cambiare il ruolo di direttore sportivo. Se dieci anni fa guardavi al direttore sportivo come a quello che vede le partite, seleziona i giocatori, fa i trasferimenti e basta. Al giorno d’oggi è completamente diverso. Devi essere consapevole delle normative, devi essere in grado di sederti allo stesso tavolo dei ragazzi della finanza e degli avvocati e capire tutto, altrimenti sarà difficile fare il tuo lavoro. Penso che il FFP sia necessario, è qualcosa che non possiamo evitare. Stimola la creatività, il lavoro di squadra all’interno del club perché è necessario lavorare con figure diverse per arrivare all’accordo transattivo. Ho imparato dal mio primo presidente al Benfica. Ero molto emozionato quando chiudevamo un accordo. Ma lui mi diceva se chiudessimo l’affare, vuol dire che potevamo fare meglio. Voleva dire che nel momento in cui si chiude l’affare, anche l’altra parte è felice e questa non è una buona cosa. Puoi sempre ottenere un po’ di più, fare un po’ meglio. Penso che sia un buon modo di vedere le cose”.